Bella intervista della Gazzetta dello Sport ad Angelo Domenghini, leggenda dell'Inter (una Coppa Campioni e due Intercontinentali), vincitore di tre scudetti (uno coi nerazzurri e uno col Cagliari) e di una Coppa Italia (Atalanta). 

Domenghini volava. E’ partito dal nulla...
"Non avevo niente, ho vinto tutto. Mio padre aveva un’osteria, eravamo in nove fratelli, sei femmine e tre maschi. Eravamo molto poveri, dormivamo in nove in due camere".

E’ stata dura?
"Beh, insomma. Al mattino lavoravo in fabbrica, alla Magrini. Al pomeriggio mi allenavo con l’Atalanta. Metà e metà. Volevo diventare professionista e non capivo. Pensavo: se mi fanno lavorare, vuol dire che non sono un vero calciatore. Avevo 19 anni e facevo l’apprendista operaio. Poi un giorno il direttore della Magrini chiama l’Atalanta: “Cosa facciamo con questo ragazzo? O lavora tutta la giornata o ve lo tenete a giocare”. Mi hanno tenuto. Ero magro, pesavo cinquantadue chili, ma mi hanno tenuto".

Due anni dopo, nel 1963, vince la coppa Italia. Cosa ricorda?
"Bellissimo, abbiamo battuto il Torino 3-1 e io ho segnato tutti e tre i gol. Non eravamo favoriti, ma abbiamo giocato meglio, molto meglio del Toro, che era una signora squadra. E a San Siro! Tutto pieno, uno spettacolo".

Poi, nel ’64, arriva la Grande Inter, campione d’Europa. Se l’aspettava?
"Sì, anche se si parlava di Torino e Milan. Avevo 23 anni, con tre campionati in A. All’Atalanta prendevo un milione a stagione, firmai un contratto in bianco e Angelo Moratti scrisse: quindici. Ero arrivato a Milano con la Seicento, mi sono subito comprato un’Alfa decappottabile, come quella di Mazzola. Ai miei ho sempre dato qualcosa, ho anche comprato un televisore per l’osteria e per i miei nonni. Il papà non lo voleva, il televisore. Non voleva la lavatrice, non voleva gli elettrodomestici. A lui del boom economico non fregava niente. Andava bene con la sua osteria, il suo campo da bocce, l’orto con i cavoli cappucci".

Con l’Inter una coppa Campioni e due Intercontinentali. Il momento più bello?
"Tutti. Come fai a scegliere? Eravamo una grandissima squadra, ma i giornalisti parlavano sempre di Mazzola, Suarez, Corso. E poi Corso, Suarez, Mazzola. Giusto, erano bravi, erano le stelle. Ma anch’ io facevo qualcosa. Io non voglio dire che sono stato sottovalutato, ma forse, dico forse, meritavo un po’ più di attenzione. Anche in Nazionale. Si parlava solo di Riva, Rivera, Mazzola, Boninsegna. Ogni tanto anche di Domenghini. Anche a Cagliari: lo scudetto vinto è stato, per molti analisti e osservatori, solo lo scudetto di Riva. Certo, Gigi meraviglioso, grandissimo, formidabile. Ma c’ero anch’io, per la miseria. Per fortuna Gigi e gli altri non se la tiravano e sapevano cosa facevo".

Derby Champions con Leao e Lukaku. Chi volerà in finale?
"Eh, qui ci vuole la sfera. Il derby è sempre il derby. Io ne ho fatto qualcuno e so cosa significa. Una cosa che ti prende lo stomaco, un’emozione veramente forte. Una volta segno al Milan e uno della tv mi chiede: “Domenghini, ci parli della sua ciabattata”. L’avrei mangiato. La storia della “ciabattata”, inventata da Gianni Brera dopo un gol, mi ha perseguitato. Potevo segnare di testa, al volo, in rovesciata, di tacco. Ma era sempre ciabattata, era diventato un luogo comune".

Sezione: Rassegna / Data: Ven 28 aprile 2023 alle 11:31 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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