“Eto’o trova Milito, vanno avanti i due attaccanti principi dell’Inter, Milito una finta, in area, ancora… El principe Diego Milito, la firma lui probabilmente questa finale, questa Coppa. È 2-0, il Principe diventa re nella notte di Madrid”.

Questo il copione che Massimo Marianella recitò mentre Diego Alberto Milito, la notte del 22 maggio di dieci anni fa, si auto-incoronava re segnando quello che verrà ricordato come il gol più bello della storia di ogni interista. Erroneamente, sia chiaro. Perché volendo sfogliare l’album dei ricordi, in centododici anni di storia, ci sono stati gol tecnicamente più virtuosi, addirittura più poetici per i quali gioire. Eppure quella di Milito era una rete di una valenza tale da non lasciare spazio alle descrizioni. Un’azione, un gol che riassumevano 102 anni di storia, scompaginando al contempo il corredo cromosomico del tifoso interista. Quella sterzata, vista e rivista, per la prima volta rompeva persino i canoni lessicali: al 70esimo di Inter-Bayern Monaco, la finta del numero 22 che ha mandato al bar Van Buyten e trafitto l’altro 22, quello avversario, era tutto fuorché una finzione.

Tutto vero. L’Inter vince la cinquantacinquesima Coppa dei Campioni, la terza della storia del Club, prima e unica dell’epoca Massimo Moratti. F.C. Internazionale inciso sulla Coppa dalle grandi orecchie alzata sotto il cielo di Madrid da Javier Zanetti come fotogramma memorabile di quel sogno coronato insieme, come la nord chiedeva. “E ora insieme coroniamo il sogno” recitava la coreografia zelantemente quanto magnificamente creata sugli spalti del Bernabeu. Un mix di gioia ed estasi, ma mai incredulità perché come direbbe qualcuno che quella notte di Madrid l’ha vissuta dal vivo, quella era un(a) finale scritta dagli astri. E come ogni dettame degli astri, il racconto sarebbe solo una superficiale proiezione di qualcosa che le parole non renderebbero. Forse perché le parole non son degne delle emozioni di quella notte che un po’ per tutti fungeva da tappo di uno champagne che dopo tanti, troppi anni finalmente saltava dal collo di quella bottiglia rimasta intatta per troppo tempo.

E allora interisti abbracciatevi forte, perché come giustamente disse Massimo Marianella sono quarantacinque anni che l’Inter stava aspettando quel momento. Tutto vero, malgrado la trance in cui erano entrati i milioni di interisti che cosparsi di lacrime si inondavano di adrenalina sotto il cielo della capitale spagnola. Una trance che ha fagocitato persino l’integerrimo argentino tutto d’un pezzo e dal capello mai fuori posto che, per la prima volta nella vita si scompigliava al punto da essere immortalato, nel giorno più importante della sua carriera, con la faccia più buffa di sempre. Persino lui, il Capitano con la C in maiuscolo e in grassetto, non era lucido da poter rendere giustizia a quello che, in quella notte, il sudore di una vita sottoscriveva: la storia e molto più. Si dice che la storia la scrivono i vincitori, ma quella era un’altra storia, particolare e unica proprio perché a salire sul podio c’era chi nella vita aveva sempre tifato per chi perdeva. D’altronde si sa, l’Inter non era (e non è) il club dalle tre finali in cinque anni e neppure quello dai 28 scudetti (fino a quel momento). Al contrario l’Inter è quel club del “nella vita ho tifato sempre per chi perde”.

Sì, perché tant’è. L’Inter era questa cosa qui: quella del 26 aprile al Delle Alpi, del 5 maggio all’Olimpico, di Ronaldo che va a Madrid e di Ibra a Barcellona per vincere qualcosa in più dello scudetto. È quella dello scudetto ad honorem, altresì detto di cartone. Questo, almeno, è quello che dicono le 'carte'; le stesse che però nella notte di Madrid, e prima ancora di Londra, Mosca, San Siro e soprattutto di Barcellona, venivano finalmente mischiate: il club degli stranieri, o dell’asado se preferite (visto il numero di argentini), perché ci siamo chiamati International Football Club, perché noi siamo fratelli del mondo. Cosa abbia significato quella notte quindi chiedetelo a Marco Materazzi, l’uomo entrato al 91esimo, a un minuto e mezzo dal triplice fischio: quello che ha sempre scelto di partecipare prima di vincere, perché la vita gli aveva insegnato che vincere è importante, ma non l’unica cosa che conta. Quello che con (forse salvifica) premeditata lucidità quella notte indossò la dissacrante maglia, nonché pelle che un qualunque interista avrebbe e ha vestito. Rivolete anche questa? Con apparente sfottò a ‘quelli lì’ ma, al contrario, sincero e liberatorio urlo di chi, per scelta, è sempre stato sul binario dell’essere preferito all’avere. Il binario di chi nella vita ha scelto e sposato un unico grande candido amore, fatto di franco e autentico idealismo: perché la vita tanto ti toglie e altrettanto ti rende, ma solo dopo aver avuto il coraggio di perseverare e credere in un sentimento, che alla fine vale certo più della gloria. E allora arriva il giorno della rivincita, il giorno dell’allineamento astrale, quando il vento è  favorevole e benevolo e i sogni diventano realtà e insieme leggenda.

Eppure quella di Milito era una finta che di finto non aveva nulla e che scompaginava sì il corredo cromosomico del tifoso interista ma anche i canoni lessicali e semantici. Per esser leggenda bisogna prima essere morti, eppure quella notte José Mourinho e la sua armata leggenda ci diventarono nel più vivido momento della loro vita, vivi più che mai. Prima di ardersi sotto i lacrimoni di un candido Marco Materazzi che sottoscriveva l’addio al più grande maestro mai avuto, che nel bel mezzo del migliore dei suoi sogni lo riportava sulla terra con lo stesso cinismo che lo aveva accompagnato nella vita da professionista ma anche e soprattutto da uomo. E così, nello stesso momento di gloria, l’Inter ripiombava nella malinconica essenza che l’aveva sempre caratterizzata, come uno scritto di Bukowski intriso di sofferente amore. Tutto o niente, niente e tutto insieme.

E ora insieme coroniamo il sogno di una realtà che s’accinge a tornare ispida, pungente, sofferente e a tratti masochista. Come Langeur di Verlaine, "io sono l'impero alla fine della decadenza…”. Ma il triplice fischio della più gloriosa delle notti gloriose era solo l’inizio di un’amara realtà che negli anni si sarebbe nutrita di ricordi di una gloria ad oggi troppo lontana e troppo tagliente per lasciare indifferenti. E come il pelide Achille che moriva fuori dalle mura di Troia, Marco Materazzi piangeva fuori dalle mura del Bernabeu, perché quello era l’ultimo capitolo di un’Iliade conclusasi il giorno della sua stessa gloria.

Dieci anni da quel ventidue maggio duemila e dieci, l’interista si guarda indietro conscio di esser perito alla fine della scalata verso un Olimpo oggi reale solo nei ricordi. E mentre il corredo cromosomico si è rinnovato con la pelle di un Biscione nostalgico ma anni luce differente, le parole di Massimo Marianella risuonano come coltelli, perché l’Inter sono (non quarantacinque anni) dieci anni che sta aspettando questo momento: quello di tornare grandi ma soprattutto dissacranti e autentici come Marco Materazzi il 22 maggio 2010.

Sezione: Editoriale / Data: Ven 22 maggio 2020 alle 00:00
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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