Non basta avere i capelli bianchi e spingere la memoria molto più in là, per ricordare. E’ passato troppo tempo. Non ci sono più testimonianze dirette, ma fortunatamente resistono fotografie e ritagli di giornale, anche se un poco ingialliti. La storia delle sfide tra Italia e Inghilterra inizia il 13 maggio 1933, quando per la prima volta le due nazionali si incontrano. A Roma, in amichevole, sarà 1-1 con gol di Ferrari e Bastin. Poi gli azzurri conosceranno solo sconfitte o pareggi. Per registrare la prima vittoria italiana bisogna aspettare il 14 giugno del 1973. Quarant’anni di attesa. A Torino gli inglesi sono battuti 2-0 (Anastasi, Capello), in una partita indetta per i 75 anni della Figc. Cinque mesi dopo ecco il primo successo in Oltremanica, il 14 novembre, a Wembley , sempre in amichevole, con lo storico gol di Capello. Poi arrivano le competizioni che contano: il 15 giugno 1980, nella fase finale dell’Europeo, 1-0 per l’Italia con gol di Tardelli e il 7 luglio 1990, 2-1 per gli azzurri nella finale di consolazione del Mondiale. Infine è la volta della qualificazione al Mondiale ’98 con gli azzurri vincenti a Londra (0-1, Zola) ma superati dagli inglesi nella classifica del girone e costretti al doppio spareggio con la Russia per qualificarsi.
Sono dieci anni che Italia e Inghilterra non si incrociano, l’ultima volta fu amichevole, a Leeds, 2-1 per gli azzurri con doppietta di Montella (27 marzo ’02). Il bilancio assoluto recita: 9 vittorie per l’Italia, 7 per l’Inghilterra, 6 pareggi. Ma esiste una partita, “la partita”, passata alla storia poi alla leggenda: Londra, 14 novembre 1934, Inghilterra – Italia 3-2. L’unica sconfitta azzurra valsa come una vittoria. L’azzurro sfuma in nerazzurro perché il protagonista – coadiuvato dagli interisti Carlo Ceresoli, Luigi Allemandi, Pietro Serantoni - si chiama Peppino Meazza, fuoriclasse assoluto che caratterizza un decennio (1929 -1939) indelebile per il calcio italiano e mondiale. E sarà proprio lui a raccontarci, - superando ogni barriera temporale - quella partita, portandoci in un viaggio nel pallone di allora, anni luce lontano da quello di oggi.
“Le partite con l’Inghilterra esercitavano sempre un grande fascino perché gli inglesi si vantavano di aver inventato il football moderno – cosa vera – e perché si sentivano talmente superiori da non partecipare alle prime edizioni dei Mondiali… Noi, da freschi campioni del mondo del ‘34, partimmo in treno da Torino, attraversammo la Manica in nave con mare molto mosso. Allemandi fece il tragitto con lo stomaco in bocca e a Dover si buttò sulla banchina dicendo che non si sarebbe più mosso da lì. In più dimenticò le scarpe da gioco a Torino. Sarebbe stato rischioso giocare con scarpe nuove, il problema fu risolto telegrafando e facendole portare da un amico.
A novembre sul paesaggio inglese cala spesso la nebbia e la domenica pomeriggio della gara la nebbia arrivò ad ondate come i nostri avversari…
Il loro veemente assalto, spinto dal tifo dell’Highbury, stadio dell’Arsenal, ci travolse. Dopo poche manciate di secondi, rigore per gli inglesi. Ceresoli si supera intuisce l’angolo e para, poi tre lampi, due gol di Brook, uno di Drake, ed eravamo solo al 12’ del primo tempo! In più Monti venne caricato malamente da Drake tanto da riportare la frattura di un dito del piede sinistro. Pozzo lo arretra, lui resiste ma poi è costretto ad uscire. Ci ritrovammo in dieci, sotto di 3 gol contro una squadra che correva il doppio (n.b. non erano previsti i cambi). Chiudemmo a fatica la prima frazione con l’identico negativo punteggio e rientrammo a testa bassa negli spogliatoi. Pozzo ci incoraggiò a batterci al meglio e ci spinse a salvare almeno l’onore. Qualcosa scattò nella nostra testa: non stavamo giocando per noi o per un club ma per l’intero Paese. Al 58’ riuscii finalmente a battere di testa il mio marcatore, l’altissimo Baker. Gol! Passarono quattro minuti e Orsi mi servì una palla magnifica che spinsi in rete evitando il portiere, 2-3. Sotto di una marcatura, sparì la fatica e cercammo con tutte le nostre forze l’impresa. Avemmo tre occasioni: nella prima Moss mi deviò con la punta del piede un pallone che avevo già visto in rete, nella seconda Guaita tentò un tiro invece di passarmi la palla mentre ero smarcato, nella terza colpii in pieno la traversa. Che rabbia! Poteva essere il 3-3. Un vero peccato.
La sconfitta divenne eroica e valse come cento vittorie: la stampa inglese ci esaltò, alla sera ci fu un elegante cena al ristorante Holborn, offerta dall’Associazione calcio inglese alla nostra delegazione. Sul retro del menù raccolsi tutte le firme dei giocatori inglesi a suggello di una partita indimenticabile.
A noi, calciatori di quella spedizione, ci venne attribuito il soprannome de “I Leoni di Highbury”.
Gianni Brera negli anni a venire cercò di depurare l’enfasi del regime fascista dall’evento calcistico parlando di calcioni, oltre che di calcio e di spintoni, oltre che di spinte sulla fascia, da parte degli italiani.
Di certo gli inglesi non furono da meno, si giocò un calcio molto fisico, duro ma onesto; l’Italia lottò e non si tirò indietro. Con i giocatori nerazzurri abili nell’usare le armi a loro disposizione: il fioretto per Meazza, la spada per Allemandi, Ceresoli e Serantoni . Il mitico Nicolò Carosio, primo radiocronista del calcio, così sottolineò l’impresa:
“Fu quella, forse, la più grande partita alla quale abbia mai assistito. L’Inghilterra vinse solo perché aveva un uomo in più, ma la vittoria morale fu degli azzurri”.
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