Era ufficialmente conosciuta come l’isola del Diavolo, non solo per l’ostilità delle condizioni climatiche ma anche e soprattutto perché finirci equivaleva a piombare in un inferno. Istituita nel 1852, la colonia penale dell’impero francese di Cayenna, al largo dei territori della Guyana, fu un luogo di torture barbariche per i prigionieri politici e gli oppositori del régime che lì venivano deportati: costretti a lavori forzati in condizioni subumane, circondati da una giungla feroce che conteneva ogni sorta di insidie, insomma segnati da un tragico destino. E chiunque provasse a fuggire, se non avesse avuto la caparbietà di Henri Carriere che da lì riuscì a scappare dopo nove tentativi, sarebbe andato incontro ad altre sventure: travolto dalla furia degli elementi, o, peggio ancora, riacchiappato e spedito in altri lager circostanti dove sarebbero finiti uccisi dalla follia o dai pipistrelli vampiro.
Chiuso ufficialmente nel 1953, il ‘bagno di Cayenna’, così come noto in Francia, è rimasto nell’immaginario collettivo come un luogo di torture e di disperazione, e per estensione indica ancora oggi un topos letterario e non solo di tormenti assoluti, dove il dolore, il panico e la follia sono merce quotidiana. La metafora della Cayenna come prigione per condannati ai lavori forzati è talmente vivida da tornare in auge, seppur in ben altri ambiti, quasi mezzo secolo dopo. A rispolverarla, in una delle tante interviste sul marciapiede che ancora oggi magari qualcuno rimpiange, fu l’ex presidente dell’Inter Massimo Moratti. Correva il luglio del 2001 e si era reduci da una delle annate più sciagurate del ventunesimo secolo nerazzurro; Christian Vieri viveva uno dei momenti più delicati della sua lunga militanza nella Beneamata, e si rincorrevano le voci su una sua partenza. Al termine di una riunione con gli uomini mercato interisti, Moratti liquidò la questione così: "Prima di tutto non si troverebbe in una caienna, poi si trova sempre un modo per stare bene qui. Non c’è modo che lui vada via e quindi resta”. E sarebbe rimasto per altri quattro anni.
Non è iniziato bene il 2019 dell’Inter, inutile negarlo: dopo la gara con il Benevento in Coppa Italia chiusa con una vittoria tennistica, il ritorno in campionato è stato a dir poco traumatico. Prima, il pareggio contro il Sassuolo che tanta grazia si sia mantenuto tale vista la quantità di gioco espressa dalle due squadre; poi, la sconfitta contro il Torino di Walter Mazzarri, giunta al termine di una gara che forse più brutta non si può, dove ha ragione chi dice che è sembrata più una gara tra due squadre preoccupate di non farla propria, e risolta da un colpo di testa sporcato e finito in rete lento e beffardo per via di un portiere che a volte si fa cogliere dal malnato vizio di battezzare in maniera improvvida i palloni. L’Inter, nonostante questi due passi falsi, continua comunque a mantenere il terzo posto in classifica, in linea con le richieste di inizio stagione, anche perché dietro la corsa tra le altre pretendenti alla zona Champions è sì bella ma ancora una volta contraddistinta da inciampi di vario tipo che coinvolgono a turno le varie protagoniste.
Puntuale come i giorni della merla, è arrivato anche questa volta il momento di shock che incombe con preoccupante costanza sull’ambiente nerazzurro soprattutto nella fase finale di gennaio in stile ‘nuvolone da impiegato’ fantozziano, in coincidenza guarda caso con l’ultimissima fase di quel mercato invernale che non sarebbe dovuto durare fino al 31 quest’anno. E infatti, puntualmente, è arrivata una nuova bufera: una bufera fatta di giocatori che all’improvviso manifestano in blocco il proprio malcontento e chiedono a gran voce la cessione. Lo scorso anno questi erano i giorni di Marcelo Brozovic col biglietto fatto per Siviglia ma poi stracciato in extremis da Luciano Spalletti; questa volta invece in ballo c’è Ivan Perisic che scopre le carte chiedendo apertamente di essere lasciato andare a inseguire il suo sogno chiamato Premier League. Richiesta dietro alla quale ci sarebbero altri malumori che guarda caso vengono fuori poco prima del gong della sessione invernale, con conseguente difficoltà di gestione di eventuali malcontenti e rischio di pesanti ripercussioni specie ora che Piero Ausilio ha dichiarato chiuso il mercaot nerazzurro.
E quindi, ecco servita una nuova situazione difficile davanti a Luciano Spalletti, tecnico finito nuovamente sulla graticola dopo le ultime, sconfortanti prestazioni della squadra; poco importano le circostanze che si è dovuto ritrovare ad affrontare soprattutto negli ultimi giorni per dover mettere insieme la formazione da schierare contro il Torino, un 3-5-2 che sulle prime aveva retto bene ma poi ha subito la maggiore fisicità dei granata. È bastato poco perché sulla testa lucida del tecnico di Certaldo tornassero ad annidarsi cattivi presagi, tra una folla social che inferocita ne chiede avventatamente l’esonero perché ritenuto chissà perché non più in grado di gestire la situazione che rischierebbe di diventare sempre più esplosiva qualora il mercato finisse senza partenze, e ombre salentine e lusitane che tornano a incupire il cielo intorno a lui.
La solita vecchia storia degli spettri della crisi che tanto piace all’opinione pubblica nostrana. Anche se questa volta c’è chi, al di là di smentite e precisazioni di rito, decide di prendere di petto la situazione: con tutta l’esperienza di navigato manager che nel mondo del calcio tante ne ha viste, Beppe Marotta decide di metterci la faccia e di spiegare per filo e per segno come stanno andando le cose, in primis spiegando al croato infelice che se ritiene di trovare altrove l’ingaggio che sostiene di meritare deve prima portare qualcuno in sede con una proposta ritenuta degna del valore patrimoniale. E soprattutto, ribadendo per due volte nel giro di poche ore che quanto sta accadendo all’Inter altro non è che una situazione come tante ne accadono nel mondo del calcio.
Anche se, francamente, a sentir Marotta definire tutto questo una situazione normale in questo ambiente viene un po’ da sorridere. Perché il nuovo ad sport nerazzurro fa benissimo a spiegare la realtà per come la vede lui, ma è altrettanto vero che dovrà necessariamente farsi una nuova corazza in questa nuova esperienza. Perché Marotta, lo ricordiamo, arriva sotto questo da un altro pianeta, e di certo non è abituato a vivere in un mondo dove quella che sembra una pioggerella fine diventa puntualmente un ciclone tropicale, dove negli ultimi giorni abbiamo assistito a casi eclatanti come quelli di Allan, Mehdi Benatia, Gonzalo Higuain ma solo quello di Perisic, la cui volontà di andare in Inghilterra è peraltro nota da oltre un anno, fa presagire contorni da tragedia giapponese anche perché il mercato sta per finire e nulla dovrebbe cambiare e allora ecco pronto il detonatore di uno spogliatoio scontento; dove la Roma si fa rimontare tre gol dall’Atalanta, il Napoli soffre per ampi tratti il gioco del Milan e sempre dal Milan viene malamente sbattuto fuori dalla Coppa Italia e la Lazio costringe la Juve alla peggiore partita stagionale ma nonostante questo esce con le pive nel sacco, ma in un mondo e in un Paese dove i risultati sono il metro valutativo di tutto una sconfitta di misura diventa il preludio di un disastro annunciato. Dove, per il divertissement di chi non si sa o si fa finta di non saperlo, diventa un problema di Marotta anche la notizia dell’arrivo del fondo LionRock Capital, come se l’ingresso di un nuovo socio forte e magari di liquidità fresche e importanti fosse qualcosa per cui strapparsi i capelli…
Benvenuto all’Inter, caro Marotta, lì dove la definizione ‘tritacarne’ data da Giovanni Trapattoni non è mai passata di moda, che sia per effettive peculiarità dell’ambiente o per la tendenza a vivere o narrare tempeste nel bicchiere. Sarà anche tuo compito quello di creare all’Inter una nuova struttura maggiormente resistente alle pressioni esterne, forse il lavoro più complicato della sua lunga esperienza da manager calcistico perché queste non sono cose che cambiano dall’oggi al domani, ma attraverso un lavoro solido e paziente. Che parta, innanzitutto, dall’individuare uomini, prima ancora che giocatori, che siano da Inter nella mente e nello spirito, prima ancora che nelle qualità tecniche; gente che non punti i piedi per un auspicato aumento di ingaggio ma che scelga di indossare questi colori perché dimostra di credere davvero a ciò che essi rappresentano. Perché l’Inter non è la Cayenna, nessun posto lo è; ma non può nemmeno essere il Paese dei balocchi.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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