La Gazzetta dello Sport oggi propone una bellissima intervista a Leo Picchi, figlio di Armando, leggenda della Grande Inter, scomparso a soli 35 anni. "Mio padre era stato curato male quando è stato lasciato per precauzione a Sofia dopo quel brutto incidente in Nazionale", racconta Leo.

Subì la frattura del tubercolo sinistro del bacino. Suo zio Leo non si è mai dato pace, pensava che fosse la vera causa della morte.
«In quell’ospedale al tempo non avevano neanche la penicillina. Posso dire che il tumore che l’ha ucciso è stato riconosciuto di origine prostatica. Lo zio non aveva tutti i torti: era laureato in Farmacia, qualcosa aveva capito».

Ricordi tristi, ma ci sono le cose belle ottenute con l’Inter. Come è stato in grado di ricostruire le vicende di un padre che se n’è andato quando lei era ancora tanto piccolo?
«È stata una ricerca continua, una sete di conoscenza che si è placata ora che è mancata anche mia madre, che se n’è andata un anno fa. Un rapporto un po’ complicato. L’ho sempre considerata una persona che si occupava poco di noi. Ammetto di essere un bacchettone giudice, ma mia madre allora non era mai il centro della mia attenzione. Cercavo mio padre».

Chi l’ha aiutata a ricostruire la sua vita?
«Il migliore amico, Paolo Saltini, erano compagni di scuola e ci è stato accanto. Giocavano tutti e due a pallanuoto. Una finale giovanile persa contro la Lazio, il centroboa era Bud Spencer. Papà era bravo in tutti gli sport, a Varese nel giorno libero si allenava con i giocatori dell’Ignis, a Milano con quelli del Simmenthal. Giocava bene. Come mio zio Leo, che è stato in Serie A di basket, oltre ad aver giocato a calcio nel Livorno e nel Torino».

Altro aggancio per ricostruire quegli anni?
«I compagni. Ho avuto la fortuna di lavorare all’Inter e poter parlare anche con loro».

Da ex interista andò ad allenare la Juve...
«Alcuni interisti mi hanno fatto arrabbiare. Aveva chiesto il permesso a Moratti. Gli Agnelli sono sempre stati disponibili. Quando è stato chiaro che era alla fine, hanno aiutato i miei zii a portarlo a San Romolo. Voleva morire guardando il mare».

La sue avventura più bella è stata in Coppa dei Campioni?
«Forse, ma era affezionato all’Intercontinentale».

Leo, come vorrebbe che venisse ricordato Armando?
«Intanto vorrei che fosse ricordato, perché nell’Inter di quegli anni era capitano, ma si pensa sempre prima agli altri. Nulla in contrario, erano atleti e persone fantastiche, ma mio padre non era soltanto un calciatore. Agiva anche nel sociale, faceva beneficenza senza dirlo in giro. Voglio ricordarlo soprattutto da un punto di vista umano».

Sezione: Rassegna / Data: Ven 24 gennaio 2025 alle 12:56 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni
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