Dicesi garante ‘chi garantisce, dà assicurazione del mantenimento di un impegno da parte di altri’. Così si è definito Simone Inzaghi dopo la pronta rivincita che l’Inter si è presa contro quella Fiorentina che quattro giorni prima l’aveva bastonata al Franchi. Un 3-0 umiliante che è stato senz’altro un bivio della storia recente dei nerazzurri, mai così brutti in stagione e in generale sotto la gestione del Demone. Il soprannome con cui da tempo gli altri chiamano il tecnico piacentino, un epiteto nato sul Web che non ha paternità certa né un significato univoco. Forse la genesi è da trovare nelle espressioni trasfigurate che gli si disegnano sul volto quando è in panchina, riflesso di una passione che lo abita e che non vede l’ora di uscire dal suo corpo.
E così l’urlo di liberazione gridato lunedì scorso, al triplice fischio, contiene le ragioni più svariate: dalla vendetta consumata in un piatto ancora caldo a spese di quell’avversario che ha messo in dubbio le sue certezze, alle cose dette e scritte sul suo conto proprio nel brevissimo intermezzo tra l’andata e il ritorno. “Questa volta devo essere sincero: sono stato contento che si è parlato solo ed esclusivamente di Inzaghi perché volevo che i ragazzi stessero tranquilli. A loro non posso dire niente dopo questi tre anni e mezzo. Non avevo dubbi che si sarebbe parlato di Inzaghi, come è giusto che sia perché sono l’allenatore. Questo ha fatto sì che mi tranquillizzassi per la partita, i ragazzi li ho visti sereni”, ha spiegato l’ex Lazio in conferenza stampa.
Serviva un nemico da trovare al di fuori di se stessi in questo momento storico, visto che chi dovrebbe contendere lo scudetto all’Inter continua a giocare a nascondino. Il riferimento, ovviamente, va a quell’Antonio Conte che, da primo della classe, tira addirittura in ballo la qualificazione in Conference League come obiettivo fissato dalla società per il suo primo mandato. Una chiara strategia per alleggerire le gigantesche aspettative che si sono create attorno ai partenopei, autori per tre quarti scarsi di campionato di un percorso straordinario viste le premesse estive e le dannose conseguenze del mercato invernale. Fa bene il comandante leccese a puntualizzare che per gli azzurri non esiste alcun ‘obbligo’ di vincere il tricolore, lo dice la storia del club, ma è evidente che abbia sbagliato i modi per analizzare il secondo pari in una settimana arrivato dopo la striscia di sette vittorie in fila, impreziosita dalle affermazioni su Juve e Atalanta. Successi talmente convincenti da portare l’ambiente a credere all’idea che con Roma e Udinese siano stati persi quattro punti. Come se la vittoria fosse sempre dovuta, la stessa ‘colpa’ di cui si è macchiata l’Inter di Inzaghi, che ha abituato critica e tifosi fin troppo bene. Basta una gara storta per parlare di crisi, per tracciare bilanci catastrofici. Inzaghi e Conte sono ugualmente ‘vittime’ del loro curriculum, portano sulle spalle quel peso di un passato vincente che non ammette fallimenti. Discorsi di cui i media si nutrono per poi sputarli e darli in pasto ai tifosi in una visione binaria che contempla solo vittoria o sconfitta. C’era già chi pregustava una fuga in classifica dell’una o dell’altra, tra recuperi e asterischi, per cominciare a parlare bene dell’una e male dell’altra. La distanza di un punto lascia tutto in sospeso, senza possibilità di sbilanciarsi troppo. Ma all’orizzonte c’è lo scontro diretto, materia troppo appetitosa per non ricamare altri scenari tragici o lieti.
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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